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"Tucidide e le riflessioni sulla pena di morte"

Una lettera di Gian Carlo Curti

CASALE MONFERRATO

Da Gian Carlo Curti riceviamo e pubblichiamo integralmente questa lettera: "Gli Stati nei quali la pena di morte era in vigore, nei secoli si sono progressivamente ridotti: in alcuni pur essendo vigente, in concreto, non viene però più applicata. Essa contribuisce specie oggi a distinguere sempre più Stati di natura democratica da quelli a natura dittatoriale. Negli Usa, pur esistendo in alcuni Stati, è tuttavia raramente applicata".

"Risalendo nella Storia dei tempi, una dissertazione sul campo e non meramente accademica, viene descritta dal greco Tucidide (IV sec. a.C.) nella Guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta: a proposito di questa famosissima guerra, continuamente ne leggiamo riportati degli aspetti applicabilissimi ai giorni nostri. Lo scritto di Tucidide davvero meriterebbe di essere letto, riletto, commentato ripetutamente".

"A proposito della pena di morte, di fronte al popolo ateniese, si fronteggiano in un notevole elevato scontro dialettico, l’ateniese Cleone e l’ateniese Diodoto, a seguito di un certo tipo di ribellione da parte della città di Mitilene: questa città era, diciamo, nell’orbita delle alleanze ateniesi ma, ad un certo punto, si era ribellata ad Atene, si era alleata di fatto con Sparta, causando la reazione di Atene stessa che la invase e la riassoggettò".

"Cleone sostenne la necessità di applicare la pena di morte agli abitanti di Mitilene. Diodoto fu invece contrario".

"Riporto necessariamente solo in parte il testo del duro, conflittuale ed elevato scontro dialettico fra i due grandi personaggi avanti al loro popolo ateniese".

"Dunque Cleone sostenne che i Militenesi per la loro ribellione dovevano essere puniti con la morte “” Puniteli come si meritano e date agli altri alleati un esempio chiaro che chi si ribella sarà punito con la morte. Se sapranno questo, in minor misura (voi ateniesi: ndr.) sarete costretti a combattere i vostri alleati trascurando i vostri veri nemici””.

"Gli replicò, Diodoto : “”... è verosimile e pensabile che una volta le pene per i più grandi misfatti fossero più miti, ma che poi, con le continue infrazioni e col passar del tempo, per la maggior parte siano salite fino alla pena di morte: eppure, anche in queste circostanze si continua ad infrangere la legge…la povertà da un lato, che col bisogno produce il coraggio, dall’altro la ricchezza, che con la violenza e la superbia crea la prepotenza, e infine le altre situazioni, tutte piene delle passioni degli uomini…, conducono ad affrontare i pericoli".

"La speranza e il desiderio, oltre tutto, l’uno che fa da guida, l’altra che segue, l’uno che escogita le imprese, l’altra che immagina il favore della fortuna, cagionano i più grandi danni…E la fortuna, contribuisce non poco all’entusiasmo. Insomma è impossibile e proprio della più grande stoltezza, che uno creda di avere nella forza delle leggi o in qualche minaccia un impedimento per la natura umana, quando essa aspira ardentemente a fare qualcosa. Non bisogna dunque, confidando nella pena di morte come in quella che dà le maggiori garanzie, prendere una decisione peggiore, né bisogna porre i ribelli alla disperazione… E questa decisa asserzione di Cleone, cioè che sarà utile per il futuro imporre la pena di morte perché meno frequenti siano le rivolte, anch’io le faccio riguardo al bene futuro, ma sostenendo il contrario. E pretendo che voi non respingiate l’utile del mio discorso perché badate all’apparente giustizia del suo suo””.

"Insomma Diodoto si avvalse delle argomentazioni di Cleone, ma per sostenere invece l’inutilità ed anzi peggio della pena di morte. Gli Ateniesi diedero ragione a Diodoto, votando contro l’applicazione della pena di morte ai Militenesi".

"Come si vede da queste elevate e sottili valutazioni – le prime in senso assoluto forse nella Storia di tutti i Popoli -, le argomentazioni ed i ragionamenti sono alla fin fine gli stessi che si sono sempre effettuati nel corso dei secoli e così oggì".

"Quanto al fatto che spesso, per un “cavillo”, processi anche molto drammatici per la gravità delle colpe e per le conseguenze delle responsabilità debbano essere addirittura rifatti, richiamo testualmente quanto scrisse Giovanni Leone (futuro Presidente della Repubblica) riguardo all’allora – siamo nel 1956 – ancora pendente famoso processo penale contro Caryl Chessman (poi giustiziato nel 1960) nel testo di Diritto Processuale Penale – C.E. Jovene 1956 – nella sua molto dotta ed elevata prefazione".

"Scrive Giovanni Leone “”Nel chiudere queste considerazioni introduttive, non vi è forse modo migliore di segnalare l’essenziale funzione delle forme che quello di ricordare un profondo pensiero di un uomo che, da più anni, combatte contro la camera a gas, richiamando su di sé l’attenzione e forse anche la pietà degli uomini. Caryl Chessman (la legge mi vuole morto, pag. 226) scrive il prof. Leone, disse: “Da ciò molti hanno tratto motivo per protestare, accusandomi di possedere un cervello machiavellico, fatto apposta per ravvisare e sfruttare tutti i possibili sofismi procedurali. Devo dire che quei particolari “procedurali”, trattandosi di condanna a morte, erano particolari abbastanza grandi per passarvi dentro con un autotreno”.

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